A mettere un punto fermo nella delineazione della disciplina della edizione di testi d’autore, sia nella forma della pubblicazione di testi in fieri che di opere attestate in varie redazioni, è nel 1987 la pubblicazione del volume di Dante Isella, Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore (Liviana, Padova), da cui, come si è già detto, proviene la felice denominazione, oggi entrata nel patrimonio comune, di “filologia d’autore” (di contro alle precedenti “critica degli scartafacci” continiana o “fenomenologia dell’originale”, secondo la definizione di D’Arco Silvio Avalle).
Allievo di Contini a Friburgo, Isella opera a partire dagli anni ’50 nel campo dell’edizione di testi sottoposti a lavoro variantistico, producendo una serie di edizioni sempre più raffinate dal punto di vista della elaborazione di apparati critici di testi sconfinanti tra il Cinquecento e l’età contemporanea, ognuno caratterizzato da problematiche diverse, che gli permettono di mettere a punto strumenti di edizioni ad hoc.
Il saggio di apertura del volume, Le varianti d’autore (critica e filologia), prolusione all’insegnamento della cattedra di Letteratura italiana al Politecnico di Zurigo, si offre come prima traccia di storia della disciplina, ripercorrendone la nascita “teorica” a partire dalla polemica Croce-De Robertis-Contini per poi delineare in particolare la posizione continiana nei suoi legami da un lato con l’estetica crociana (con cui, nel saggio ariostesco, Contini aveva sottolineato la perfetta complementarità, delegando alla disamina delle varianti una sorta di funzione di controllo delle descrizioni “caratterizzanti” della critica crociana) dall’altro con la critica stilistica di Leo Spitzer corretta e sottoposta a verifica dal confronto non più tra la lingua individuale dell’autore e una norma linguistica astratta ma tra le successive scelte operate dall’autore.
L’ecdotica – la scienza che affronta i problemi legati alle edizioni dei testi – è dunque a sua volta in se stessa un atto interpretativo, fatto che impone una maggiore responsabilità del curatore, obbligato a plasmare le scelte metodologiche in base alla propria ipotesi ricostruttiva, e il passaggio a strumenti di rappresentazione insieme più analitici e più duttili, piegati come devono essere sulle diverse situazioni testuali. A questa aderenza al testo, sensibile nella registrazione, per usare le parole di Isella, come il «pennino del sismografo», risponde anche la ricerca negli apparati di una formalizzazione adeguata e ritagliata, per così dire, sulla particolare metodologia correttoria degli autori: cosicché se l’intervento tipico di Gadda è quello di un incremento a posteriori del periodo, mediante inserzioni e ascrizioni, rappresentabili dunque in maniera più fotografica, quello di Manzoni è invece caratterizzato dallo sviluppo da una frase “base” di implicazioni logiche che si sviluppano sintatticamente in nuovi segmenti, e che comportando dunque la sostituzione del primo getto con gli sviluppi successivi, richiede perciò una rappresentazione più compatta che permetta la visualizzazione e comparazione della intera struttura sottoposta a variante, secondo una gerarchizzazione di fasi la più completa possibile. Che è quanto avviene di fatto nei diversi apparati approntati per i testi gaddiani e invece per l’edizione critica del Fermo e Lucia, il secondo nettamente orientato verso una rappresentazione interpretativa che privilegia la confrontabilità dei segmenti compiuti di testo sulla indicazione puntuale e topografica.
Certo, fra i due progetti corrono anche anni di nuove esperienze, realizzate da Isella direttamente o dalla sua scuola, che hanno ulteriormente raffinato i criteri editoriali: così se a partire proprio dall’edizione del Racconto italiano di ignoto del Novecento di Gadda edito nel 1983, Isella ha potuto precisare con chiarezza la distinzione di un triplice filtro di livelli testuali di
1. apparato
2. postille
3. varianti alternative
poi utilizzato per l’edizione integrale delle opere gaddiane edite nella collana garzantiana della “Spiga” a partire dal 1988 (dove non tutti i testi sono dotati di apparato, ma per tutti una nota al testo informa esaurientemente sulla situazione redazionale), è forse nella edizione dei Malavoglia di Verga curata da un allievo di Isella, Ferruccio Cecco (1995) che si precisano alcune tecniche fondamentali nella costruzione degli apparati lineari di testi in prosa.
(Testo tratto da P. Italia-G. Raboni, Che cosa è la filologia d’autore, Roma, Carocci, 2010 [V ed.])