La filologia d’autore e la critica delle varianti

Dopo un decennio, in cui il «mirabile» lavoro di Moroncini viene più ammirato e citato che studiato, nel 1937 Santorre Debenedetti pubblica l’edizione critica di alcuni frammenti autografi dell’Orlando furioso. Nello stesso anno, Gianfranco Contini, cropped-Copia-di-Contini-5come recensione all’edizione Debenedetti, pubblica sulla rivista «Il Meridiano di Roma» il saggio che viene unanimemente considerato l’atto di fondazione della critica delle varianti: Come lavorava l’Ariosto (poi raccolto nel volume Esercizi di lettura nel 1939).

Nelle varianti del Furioso il filologo rintraccia alcune costanti, alcuni elementi ricorrenti, che permettono di dare una descrizione della poetica ariostesca e che, alla fine, risulta non in contraddizione con quella “caratterizzante” che era stata data nel celebre saggio (Ariosto, Bari, Laterza, 1919, poi raccolto in Ariosto, Shakespeare e Corneille, ivi, 1920) in cui Benedetto Croce aveva riconosciuto nell’armonia il principio fondante la poetica ariostesca. L’esercizio critico, tuttavia, permette a Contini di affrontare più in generale il problema del significato di uno studio delle correzioni del testo nelle sue ricadute estetiche e filosofiche, con la definizione del «modo dinamico» con cui si può vedere l’opera d’arte: una «perenne approssimazione al “valore”» (Contini 1970). La grande influenza esercitata dal pensiero e soprattutto dall’estetica di Benedetto Croce nella cultura italiana non permetteva, nemmeno a Contini, di riuscire a muoversi su binari strettamente letterari e filologici, tanto che la nuova «critica delle correzioni» (questo il nome tecnico, prima che venga soppiantato dal più celebre: «critica delle varianti») viene presentata come una «variante pedagogica» della critica crociana, in grado di giungere alle medesime conclusioni (quindi non in opposizione al metodo di Croce), a partire da un approccio diverso, che consideri il testo in senso dinamico invece che in senso statico.

È interessante notare che la polemica che emergerà con Croce non sarà riferita a questo saggio di Contini e all’edizione di Debenedetti di cui era la recensione e in certo senso la “giustificazione”, ma a un altro testo a suo modo difensore di una visione dinamica delle opere d’arte, ovvero l’articolo che Giuseppe De Robertis aveva pubblicato nel 1946 in difesa dell’edizione di Giuseppe Lesca della prima redazione dei Promessi sposi, il Fermo e Lucia (Napoli, Perrella, 19156, allora intitolato ancora: Gli sposi promessi), fortemente criticata dal filologo Ernesto Giacomo Parodi, sin dal suo primo apparire («Marzocco», XXI, 9, 1916). La polemica Croce-Contini infiamma le riviste letterarie di questi anni, nel fervore, anche intellettuale, dell’Italia del secondo dopoguerra. Nel saggio La critica degli scartafacci, Contini ribadisce con forza che la nuova critica non era nata in contrapposizione con quella crociana – «Io opponevo “direzioni” a “contorni fissi”» – che parte, come ha bene messo in luce Dante Isella, dal medesimo assunto: Se la poesia realizzata non si identifica, naturalisticamente, «con la lettera del testo (o con le pennellate sulla tela)», se dunque il «valore» va inteso, nella più rigorosa ortodossia, «quale presenza trascendentale e non fisica», ne consegue in senso stretto che «esso può riscontrarsi così nel testo, in quanto opus perfectum, «come nel movimento o nell’approssimazione al testo» considerato nel suo farsi (Isella 2009, pp. 5-6).

Tale visione dinamica dell’opera d’arte non poteva restringersi in confini nazionali. E infatti, le prime applicazioni di questo nuovo metodo di analisi dei testi sono dedicate tanto a Petrarca e Leopardi, quanto ai grandi nomi della narrativa e della poesia straniere, come l’Introduzione alle «paperoles» («scartoffie») del 1947 sulle varianti della Recherche, o il saggio su «Jean Santeuil», ossia l’infanzia della «Recherche».

(Testo tratto da P.Italia-G.Raboni, Che cos’è la filologia d’autore, Roma, Carocci, 2016 [V ed.]).