- Notizia sull’opera
Terzo tempo delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, Alcione[1] vide la luce in volume – in seguito a varie anticipazioni su rivista – nel 1903 (con data 1904) per i tipi dell’editore Treves. Frutto di una gestazione quadriennale, intrecciata alla crescita di altre creature dannunziane (il romanzo Il fuoco in prima istanza), si configura come organismo di ampio respiro, strutturato su calibrate geometrie e dinamiche rilevate da Pietro Gibellini nel corso di una messe di studi preparatori esitati poi nell’edizione critica (A 1988)[2].
La raccolta, intitolata – al pari degli altri sei volumi del poderoso ciclo poetico – ad una delle sette costellazioni delle Pleiadi, si presenta come «diario lirico» di un soggiorno estivo nei luoghi toscani cari all’autore. La parabola stagionale che vi si delinea attraverso i paesaggi immortalati con tecnica scaltrita, in un vortice sinestesico di rara musicale intensità, è invero finzione che cela «un’avventura esistenziale-conoscitiva (dalla ricerca di un rivitalizzante recupero del mito alla coscienza della sua irreparabile perdita)» (A 2010, p. 15).
Scandite da quattro ditirambi, le cinque le sezioni[3] in cui si articola Alcione accolgono ben 88 testi, ordinati secondo un criterio tendenzialmente cronologico-tematico su cui spesso prevarica la logica di un «percorso metapoetico» che, nutrito di modelli spesso esibiti (Dante, Rimbaud e i simbolisti, Nietzsche), vede l’autore proiettarsi in molteplici controfigure: il fanciullo, Glauco, Apollo, Orfeo, sono solo alcune delle maschere che D’Annunzio indossa nel compiere quella catabasi nella storia della sua poesia in cui, in fondo, Alcione consiste.
- Descrizione del fondo e del testimone
Partito in numerosi fondi, l’Archivio D’Annunzio della BNCR “Vittorio Emanuele II” accoglie materiale eterogeneo (corrispondenza, manoscritti e bozze di stampa, cartoline, fotografie, ecc.) da cui emerge il profilo privato e pubblico di uno dei più modellizzanti e controversi protagonisti del panorama culturale del primo Novecento. Di gran parte del vastissimo bacino documentario è disponibile online un regesto, A.R.I.E.L. (Archivio Raccolte Dannunziane In Formato Elettronico)[4], nonché la riproduzione digitale ad ottima risoluzione[5].
Il testimone in esame, con segnatura Vitt. Em. 1743.22, è stato acquisito all’asta Christie’s di Roma nel 2000, in seno a un lotto corposo comprendente manoscritti di altre liriche di Alcione (tra cui Lungo l’Affrico, Bocca di Serchio, Ditirambo II) e di Elettra, seconda stazione delle Laudi. Si tratta di una minuta autografa, costituita da 2 cc. scritte a penna sul recto, numerate (1-2) da D’Annunzio nel margine superiore destro e recanti, costellate di un prezioso corredo di correzioni d’autore, le tre strofe in cui si articola il componimento: c. 1, vv. 1-13; c. 2, vv. 14-24. In alto a destra nella c. 1 e in calce al testo (c. 2) figurano annotazioni apografe vergate a matita, rispettivamente: Laudi Vª II Pag. 320-321 (probabile rinvio alla collocazione del testo nell’edizione Treves del 1904) e nuda aestas. Si rilevano inoltre la sottolineatura del titolo e la presenza nell’ultima carta di un breve tratto orizzontale che sembra marcare graficamente il perimetro del brano poetico. Da un punto di vista materiale patente è l’apparentamento con altri autografi dannunziani che rispondono ai medesimi parametri (Belletti 2009, p. 78).
3. Edizione diplomatica
La scelta di inserire in questa sede la diplomatica è mirata a dimostrare, attraverso un confronto sinottico – lungi da un rifiuto preconcetto -, che la fedele riproduzione delle minute particolarità materiali e grafiche rappresenta un primo approccio al documento: rivelando la superficie del testo, offre una solida base di partenza su cui sperimentare le potenzialità ermeneutiche proprie dell’edizione critica.
3. 3. Trascrizione diplomatica
- Edizione critica
Riportiamo ora la prova di edizione critico-interpretativa. Per quanto la diplomatica sia fondamentale per un primo contatto con il testo, riteniamo, infatti, che uno studio completo di carte autografe non possa prescindere da un’edizione che si ponga lo scopo di ricostruire i fenomeni che hanno segnato la genesi di un’opera e consenta di osservare, da una posizione di privilegio, l’autore nella sua officina.
4.1. Criteri di edizione
L’edizione presentata riproduce l’ultima lezione ricavabile dall’autografo romano, pressoché identica (per le numerate differenze vd. Note filologiche) a quella definitiva, posta a testo da Gibellini in A 1988 sulla base del dettato della bella copia in pulito e autografa (G 1193 f’, qui B) conservata presso l’Archivio Personale del Vittoriale (cfr. A 1988, p. CXLV). Tale notazione comprova che la complessa vicenda dei tasselli dell’ Alcione è generalmente accolta dalla minuta: in questa sede il testo raggiunge la piena forma (passibile di minimi ritocchi a livello di accentazione e/o interpunzione), riversandosi poi nella bella copia, calligrafica e priva di correzioni o interventi ulteriori.
Scartando rispetto all’articolato edificio critico costruito da Gibellini, incardinato nella distinzione tra «pre-istoria» e «storia» testuale propriamente detta (Gibellini 1994, pp. 146-51), optiamo per un apparato genetico volto a ricostruire la sofferta elaborazione della lirica, con indicazioni sulla seriazione cronologica e, quando necessario, sulla topografia delle molteplici correzioni.
4.3. Note filologiche
tit. La semplice formula «Nuda aestas» occulta la patente citazione ovidiana («Stabat nuda Aestas» et spicea serta gerebat, Met., II, v. 28). La lezione originaria passa a testo in B e nelle varie stampe (con la variante grafica Æstas/ Aestas): la presenza della forma verbale in posizione tematizzata denuncia la specularità del titolo rispetto a quello di un altro noto componimento, Furit aestus, con cui – al pari di Terra, vale! e Altius egit iter – Stabat nuda aestas condivide struttura metrica e funzione strategica: costituite da tre strofi di endecasillabi sciolti irregolarmente assonanzati e contrassegnate dal titolo in latino, le quattro liriche introducono altrettanti ditirambi, rivelando così la meditata architettura alcionia. Il predicato «Stabat» compendia inoltre in sé l’idea di ieratica immobilità connaturata al meriggio, classica ora delle epifanie, in esplicito contrasto con la precipitosa fuga dell’Estate personificata.
10-13 In B e nelle stampe il v. 11 reca «su la schiena» e il v. 12 «pallàdio»: si registra pertanto il recupero della lezione del testo base. La prima fase è inoltre bruscamente troncata: «e i suoi capelli fulvi tra l’argento | pallàdio trasvolare s». Probabilmente D’Annunzio si accingeva a scrivere «senza suono» ma, desistendo da tal proposito per ritornare sui versi precedenti, ha lasciato incompiuto il sintagma, cassato e in seguito ripreso.
13. Il termine «stoppia» sembra un’aggiunta (necessaria a evitare ipometria) successiva alla correzione surriferita, come comproverebbe la sua peculiare posizione: schiacciata in basso a destra nella c. 1.
18. Il tratto più marcato che caratterizza la vocale finale di «messe» è più funzionale a cancellare la contigua virgola (recuperata quasi per compenso al verso successivo, dopo «entrò») che a correggere la «e» in «i»: l’assenza del consueto punto ne sarebbe testimonianza. In B e nelle stampe figura la lezione «mèsse».
19. La correzione interviene probabilmente prima che il verso raggiunga forma piena: nella versione pregressa sarebbe ipometro. In alternativa si potrebbe postulare proprio il difetto metrico quale motore della revisione del passo.
21. In «torse» la «e» corregge il trascorso di penna «s»; diverso il caso del passaggio di «falso» in «fallo» (con l riscr. su s): la locuzione ‘mettere il piede in falso’ è attestata come equivalente di quella più comune con «fallo» (TB, vol. II, p. 629), qui variata da D’Annunzio in forma peregrina.
23. Il possessivo «suo’», derivata per ricalco dal precedente «sue», ha il conforto della lezione dantesca (cfr. Rime, 15, v. 14: «e suo’ serventi meritare a punto») e di numerose occorrenze riportate dal TLIO.
24. Si congettura la lezione <nudi [tà]?> (rimasta tronca per repentino mutamento di ispirazione): freghi e cancellature con tratto spesso rendono ardua l’interpretazione del dettato.
In «M’apparve immensa nell’immensità», terza stesura del verso finale, degna di nota è l’eliminazione dell’infelice annominazione, in conformità con la strategia della variatio che innerva la genesi della lirica (vd. infra Come lavorava D’Annunzio).
In questa sede preme sottolineare solo una particolarità relativa a 6T: la sillaba incipitaria di «apparve» è inserita in un secondo tempo: lo certifica lo spazio ridotto tra «immensa» e «parve». Non si tratta però di una variante stricto sensu tardiva, appartenente a una campagna di correzione seriore, come potrebbe suggerire l’inchiostro meno carico: in realtà lo strumento scrittorio con cui l’autore verga il testo base e le correzioni sembra il medesimo e tratti di penna più deboli figurano anche in luoghi sicuramente ascrivibili al primissimo stadio di elaborazione (cfr. «Primamente» v. 1, «allora» v. 16, «in bronzea» v.18, ecc.).
La transizione da «parve» alla lezione definitiva non è inoltre dettata da ragioni metriche: la sinalefe storna il rischio di ipermetria; ad agire è piuttosto un movente stilistico-semantico: D’Annunzio trasceglie «apparve», tradizionale verbo delle teofanie caro a Dante (cfr. VN, 2: «Apparuit iam beatitudo vestra»), il cui magistero si riverbera nella raffinatissima ricerca formale e simbolica dell’Alcione.
- Come lavorava D’Annunzio
L’esame della minuta offre il destro di ripercorrere l’opera di limatura a cui D’Annunzio sottopone la lirica: uno scavo inesausto alla ricerca della parola eletta. La rilettura della tradizione classica e moderna – nonché della propria arte – in cui tale quête si estrinseca, segue precise direttrici, sintetizzate nell’iter variantistico che riesce nel v. 24: «Immensa apparve, immensa nudità».
Le prime due stazioni testuali, incardinate nell’incipitario «Riconobbi», si segnalano per il perfetto parallelismo con il v. 8, anch’esso a suggello di strofe: corrispondenza sacrificata alla preponderante istanza di variatio. Lo stesso meccanismo soggiace alla riduzione delle coppie «tremare-tremar» (in cui si riverbera il «tremito» di v. 4) e «trasvolare-trasvolare»[6] in favore di un dettato meno ridondante, esito estremo di un fine lavorio in cui l’autore sembra sperimentare tutte le possibili combinazioni ottenibili da un numero limitato di tessere, muovendole incessantemente come pedine in un gioco di incastri a cui fanno da contrappunto le varianti puntiformi.
Il «Riconobbi» espunto trascorre nel connotato «apparve» – eco dantesca (vd. Note filologiche) ovvero prestito da Patuit dea del Pascoli[7] – disceso dal precedente «m’apparve»: si modula così, in forma di climax, la transizione dal protagonismo dell’io, autore dell’agnitio, a quello della donna-Estate, evocata per metonimia attraverso la sua «nudità»[8]. L’intervento sulla primitiva stesura del segmento potrebbe avere inoltre offuscato la memoria rimbaudiana (cfr. Aube: «à la cime argentée je reconnus la dèesse»), sinopia prepotentemente riemersa nella lezione finale, dove riecheggia «et j’ai senti un peu son immense corps[9]». Al neutro «corps» subentra l’abbacinante «nudità» della figura femminile, secondo il disegno di intessere un fitto ordito intertestuale che connette la poesia a Ditirambo III, sua ideale continuazione e compimento[10], e a L’oleandro, lungo poemetto in cui è incastonata la storia di Dafne, mitica metamorfosi che si proietta nella cangiante natura della «vertiginosa» Estate.
Il legame è esplicito altresì sul piano metrico, manifestandosi – pur nella difforme impostazione generale – nell’ «uso originale della rima tronca […] in funzione di chiusura periodica […] sempre con uscite in -à-» (Pincherla 1999, pp. 267-268): ne L’oleandro sistematicamente applicato a configurare una «circolata melodia», il “canto di Erìgone” (vv. 432-480), sua splendida chiusa; in Stabat nuda aestas presente in una sola ma quanto mai significativa occorrenza, al solito v. 24, come di prammatica nei componimenti preditirambici.[11] Il tormentato verso rappresenta poi un saggio della sperimentazione a cui D’Annunzio indulge in chiave metrica e ritmica. «Immensa apparve, immensa nudità» rappresenta infatti una variante (tronca), con accenti di 2a-4a-6a-10a, dell’endecasillabo a maiore[12].
A riprova dell’ attitudine a fornire di una inusitata veste forme e temi, irrigiditi nel canone eppure introiettati, è opportuno citare il v. 23: «Il ponente schiumò ne’ suo’ capegli». Il confronto tra le tre stesure testimonia della volontà di rivisitare la topica iunctura tra il «mare» e lo «spumare» (o «schiumeggiare»[13]) sostituendo all’elemento equoreo il vento, forse su suggestione virgiliana (Aen., I, v. 319: «[…] dederatque comam diffundere ventis»). La scelta di «capegli»[14] (prima «capelli» / «chiom[e]») risponde alla ricerca di lessico pellegrino che informa l’intelaiatura base del testo («estuava», la forma pronominale «si tacquero», «colùbro», tra le occorrenze più rilevanti) e il processo correttorio. Ne discende l’innesto al v.11 dell’aggettivo «falcata», da cui promana quell’idea di sinuosità che dalla morbida schiena dell’Estate sembra trasfondersi in tutto il periodo, riprodotta attraverso il susseguirsi degli enjambements e le figure di permutazione.
Altro esempio è dato dal passaggio di «secco si chiudea» in «richiudeasi strepitoso» (v.19). Accanto alla pervasiva tendenza alla variatio – la forma con enclitica crea dissonanza rispetto alla sequenza «si tacquero»-«si fecero» (v. 5-6) –, si rileva la predilezione per una voce nobile, pregna di sonorità e risonanze foniche dosate con sapienza in un continuo strenuo esercizio di mimesi stilistico-linguistica. In questa ottica va inquadrata la correzione di «dalle scaglie» in «giù pe’ i fusti»: l’avverbio accresce il capitale fonosimbolico del verso riprendendo la matrice palatale di «gemette»; il sostantivo da un lato ingloba in sé il trigramma –fus-, richiamando l’«effusa» di v.4, dall’altro si lega in assonanza con «raggiunsi» e «fulvi» (in clausola a partire dal secondo stadio elaborativo dei vv. 10-13) e parzialmente con «rochi». Di particolare interesse infine «pe’», forma preposizionale apocopata[15] di matrice tosco-fiorentina e dotata di patente letteraria, che al pari di «ne’» e «suo’» (v.23) compare nel corso del processo di revisione testuale.
A. Siciliano
Note
[1] Il titolo originario è Alcione: la forma Alcyone compare nel frontespizio solo a partire dall’edizione del 1931.
[2] Tra i più rilevanti si segnala Gibellini 1985.
[3] Stabat nuda aestas figura nella terza sezione, improntata alla celebrazione del fulgore dell’Estate.
[4] A.R.I.EL L’acronimo è ispirato allo pseudonimo, Ariel appunto, con cui D’Annunzio amava firmarsi nelle missive d’amore indirizzate ad una delle sue innumerevoli amanti, la pianista Luisa Baccara.
[5] Manoscritti moderni – Biblioteca nazionale centrale di Roma.
[6] Vv. 10-13. La semplificazione della seconda dittologia è inoltre funzionale a evitare una stridente rima perfetta, in un testo in endecasillabi sciolti variamente assonanzati.
[7] Vv. 5 e 17. Per Praz (1968, pp. 380-2) Patuit dea rappresenta la sinopia del testo alcionio. La comune matrice potrebbe essere Virgilio (Aen., I, v. 405: «et vera incessu patuit dea»).
[8] Definita con duplicatio «immensa». L’iterazione permane se ha, come in questo caso, valore enfatico, o mimetico (vv. 15-16, ove la struttura chiastica è però foriera di differenziazione).
[9] Corsivi miei.
[10] «o Estate, Estate, / io ti dirò divina in mille nomi, / in mille laudi / ti loderò se m’esaudi. / se soffri che un mortal ti domi, / che in carne io ti veda, / ch’io mortal ti goda sul letto dell’immensa piaggia / tra l’alpe e il mare, / nuda le fervide membra che riga il tuo sangue d’oro / odorate di aliga di rèsina / di alloro» (vv. 93-102). L’accusativo alla greca è preziosismo forse debitore di «nuda genu» (Aen., I, v. 320), riferito a Venere che, insieme ad Aretusa e Dafne, appare in filigrana nel sensualissimo ritratto dell’Estate.
[11] «pesa, o Mèsse, la tua maturità» (Furit aestus, v.24); forse immolata per l’eternità» (Terra, vale!, v.24); «mia d’altezze e d’abissi avidità» (Altius egit iter, v.24).
[12] Ancora in D’Annunzio: «Oblia la notte tutte le sue stelle» (L’oleandro, v. 478).
[13] Verbo caro al Vate: «Tra il Cretico Mare e il Mirtòo / mollizie insulare, lascivo / sale che ancor bolle e schiumeggia / della sua figlia Afrodite» (Maia, Laus vitae, XII). Potrebbe aver agito il modello virgiliano :«haec inter tumidi late maris ibat imago / aurea, sed fluctu spumabant caerula cano, / et circum argento clari delphines in orbem / aequora verrebant caudis aestumque secabant» (Aen., VIII, vv. 671-5).
[14] Fa pienamente sistema con la correzione capelli > capei ai vv. 11-12. La preferenza per «capegli» sembra essere stata dettata dalla consueta ricerca di variatio.
[15] Altra forma con troncamento, di chiara matrice poetica, figura al v. 1:«piè».
6. Bibliografia
Per la gentile concessione delle riproduzioni digitali si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.
Opere di Gabriele D’Annunzio
A 1988 G. D’Annunzio, Alcione, edizione critica a cura di P.Gibellini, Milano, Mondadori (Edizione Nazionale delle opere di G. D. A., 7).
A 2010 G. D’Annunzio, Alcione, a cura di P.Gibellini, Torino, Einaudi.
Opere di altri autori
Dante 2014 D. Alighieri, Rime, a cura di C. Giunta, Milano, Mondadori.
Rimbaud 2014 A. Rimbaud, Tutte le poesie, a cura di L. Mazza, Roma, Newton Compton Editori.
Studi critici
Belletti 2009 G. Belletti, Nuove carte di “Alcyone”: note sull’elaborazione, in «Quaderni del Vittoriale», n.5, 2009, pp. 77-89.
Gibellini 1985 P. Gibellini, Logos e Mythos. Studi su Gabriele D’Annunzio, Firenze, Olschki.
Gibellini 1994 P. Gibellini, L’edizione critica dell’Alcyone di D’Annunzio: problemi e riflessioni metodologiche, in I sentieri della creazione, Reggio Emilia, Diabasis, pp. 139-56.
Praz 1968 M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni (3a edizione), pp. 379-428.
Dizionari e altri strumenti
Pincherla 1999 A. Pincherla, La metrica, Milano, Bruno Mondadori.
TB N. Tommaseo, B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, Unione tipografico-editrice, 1861-1879.
TLIO Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, a cura di L. Leonardi, in rete, ultimo aggiornamento 4 agosto 2015.