Diavoli siete, parole. Angeli, siete. Brusche, melliflue, ombrose…ora carte veline, pelurie, petali di ninfea che s’infiora;ora schegge di vetro, spine, carboni ardenti…
G. Bufalino, Calende greche
- Notizia sull’opera
«Mi perdoni, caro Fonzi, tutte queste pedanterie; ma Lei comprenderà come mi stia a cuore tutto quanto interessa questo mio libro: tanto più che, per me, esso è il più bello che io ho scritto finora», scrive Elsa Morante in una lettera inedita a Bruno Fonzi il 24 novembre 1956.[1] Testimonianza premurosa di quanto accade dietro le quinte di quello che il critico e teorico marxista György Lukács definisce «il più grande romanzo italiano moderno»[2], l’affermazione bene informa, celandola nella dichiarazione di preferenza per l’ultimo nato, del sollecito lavorìo di lima e cura sotteso all’opera.
L’isola di Arturo esce per i tipi di Einaudi nel 1957. Nei modi del romanzo di formazione e della memorialistica d’infanzia – pur eludendo regole e modelli, qualsiasi consacrata tradizione del Novecento[3] – il protagonista Arturo ricorda il proprio percorso di iniziazione alla vita attraverso tutti i suoi misteri, torbidi e non; quando un giorno «il mio ideale di grandezza umana, di cui riconoscevo in mio padre l’incarnazione vivente»[4] (Cap. I) torna con una sposa bambina prelevata dai bassifondi napoletani, la reazione, sconvolgente (Cap. II), innesca in Arturo il processo di maturazione. Nunziata scatena la gelosia del ragazzo, che ne contende l’affetto prima al padre Wilhelm (Cap. III) poi al fratellino neonato Carmine (cap. IV) in un crescendo di tensione che lo porta nella quinta parte, laddove l’«ordito delle prove si fa più tragico»[5] – con eventi preannunciati dal titolo Tragedie -, a tentare il suicidio con dei sonniferi, gli stessi usati dal padre (Cap. V).
Qualche appunto di carattere generale era necessario ad introdurre lo scopo del lavoro. L’episodio del tentato suicidio di Arturo è costruito, assemblato e rimuginato in una serie di carte manoscritte all’interno dei quaderni che compongono l’opera. Attraverso l’analisi microanalitica di una di queste, un singolo campione, una fotografia ritagliata e ingrandita, e con particolare attenzione alle campagne correttorie, variantistiche e le metamorfosi strutturali si vuol provare a leggere lo stratificarsi del testo e il processo creativo, a volte lineare, ma più spesso sofferto, alla base di questo, come di ogni prodotto artistico.
- Descrizione del fondo e testimone
Donate da Carlo Cecchi e Daniele Morante alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma nel 1989, per volontà della scrittrice, le carte della Morante sono conservate presso il Dipartimento Manoscritti e Rari nel fondo Vittorio Emanuele e comprendono manoscritti, dattiloscritti e bozze di stampa delle sue opere principali. Si tratta di “La storia” (Vitt.Em.1618), “Menzogna e sortilegio” (Vitt.Em.1619), “L’isola di Arturo” (Vitt.Em.1620), “Aracoeli” (Vitt.Em.1621), “Il mondo salvato dai ragazzini” (Vitt.Em.1622) e “Lo scialle andaluso” (Vitt.Em.1742), acquistato successivamente all’asta Christie’s di Roma del 14 giugno 2001. Infine, nel gennaio 2007, a seguito della mostra “Le stanze di Elsa: dentro la scrittura di Elsa Morante” è stata donata alla Biblioteca una raccolta di carte varie comprendente scritti giovanili, racconti, poesie, romanzi incompiuti, diari, saggi e materiali inediti (A.R.C.52).[6]
L’isola di Arturo viene pubblicato nel 1957 dopo una stesura, per stessa ammissione dell’autrice, di quattro anni, quelli compresi tra il ‘52 e il ’56, anche se il manoscritto di cui disponiamo non presenta indicazioni di data posteriori al 5 ottobre 1955.[7] Il corpus, cartaceo e di unica mano autografa dell’A., misto di carte legate e sciolte è composto da 12 quaderni di mm. 350X250 rilegati in cartoncino rigido plastificato e 4 album del tipo disegno di mm. 250X350 per un totale di 16 pezzi; una collezione piuttosto ingente a conferma dell’estrema mole di attività compositiva. Comprende inoltre:
- Due cartelle di fogli sciolti manoscritti e dattiloscritti;
- Carte sciolte di stesure varie divise in 10 gruppi;
- 700 fogli sparsi non riordinati di appunti pre-testuali, pagine tagliate dai quaderni;
- Quaderno di note varie manoscritte;
- Dattiloscritto dell’opera;
La carta protagonista della nostra analisi, la 399 bis (come da numerazione autografa) è sciolta e si presenta nel quaderno V.E.1620/A.11 come rifacimento della c. 399. Essendo stato riscontrato il frequente inserimento, da parte dell’A., di carte sciolte non numerate, in fase di schedatura si è ritenuto opportuno affiancare una nuova numerazione a matita, che identifica le stesse, rispettivamente, cc.16-17.
3. L’isola di Arturo (c. 399bis)
3. a Riproduzione
- b Edizione diplomatica
La scelta di anteporre in questa sede l’edizione diplomatica a quella critica è mirata a dimostrare, attraverso un confronto sinottico – lungi da un rifiuto preconcetto -, che la fedele riproduzione delle minute particolarità materiali e grafiche rappresenta un primo approccio al documento: priva di potenzialità in chiave ermeneutica, la diplomatica rivela solo la superficie del testo, occultando così il complesso di fenomeni che ne hanno informato la genesi.
- Edizione critica
Riportiamo ora la prova di edizione critico- interpretativa. Per quanto l’edizione diplomatica sia fondamentale per un approccio iniziale al testo riteniamo, infatti, che uno studio completo di carte autografe non possa prescindere da un’edizione che abbia come scopo la ricostruzione di tutti quei fenomeni che fanno parte dell’universo della gestazione di un’opera, e che portano così a intravedere il laboratorio di un autore.
4.a Criteri di edizione
La porzione di testo in esame – inclusa nel paragrafo Suicidio, del capitolo quinto – riproduce l’ultima lezione ricavabile da V.E. 1620 A/11, intermedia rispetto alla stesura dattiloscritta di V.E. 1620/F.1 destinata a confluire nella prima edizione a stampa, dove lo stesso passo risulta notevolmente contratto. Con un apparato il più snello possibile, volto a ricostruire la genesi della, seppur minima, porzione a testo, e una formalizzazione che tende ad abbracciare in variante il maggior segmento testuale si intende privilegiare la diacronia, mostrando la seriazione cronologica delle fasi correttorie più che la topografia dei molteplici aggiustamenti. Per le fasi correttorie ampie si segue la numerazione dei paragrafi – redazionale e volta a isolare segmenti concettuali riscontrabili e nella forma piena pronta per la stampa e nella prima composizione di c.399 – schematizzando, dove necessario, il processo variantistico in diverse fasi (indicate da apici numerici) e microfasi interne (simboleggiate da apici alfabetici in tondo, poi in corsivo, poi in grassetto e così via) mantenendo, per un più immediato risalto, la formulazione definitiva in corpo maggiore e gli “accidenti” in corpo minore. Segnalate le interruzioni o lacune d’autore, dove presenti. Per quelle che sembrerebbero varianti alternative si riporta la prima formulazione, mentre quella ipotizzata finale, racchiusa tra le parentesi quadre, segue in nota e in stesso corpo tipografico, richiamata da apici alfabetici. Di particolare interesse sono appunti, indicazioni, ipotesi a margine o immediatamente successivi al testo. Qui la postilla, con indicazione dei numeri di carta e di rigo, viene riportata di seguito, nello stesso corpo tipografico, parte per rispettarne la disposizione topografica, parte per dare rilievo a come la scrittrice fosse solita, anche in fase avanzata, rimettere in gioco idee, stesure precedenti o lasciarsi aperte nuove possibilità.
Tavola delle abbreviazioni:
<?> parole dubbie;
<… > interruzioni e lacune dell’autore;
< postille;
→ riutilizzo di materiale precedente;
4.b Testo ultima lezione e apparato genetico
4.c Note filologiche
[1] L’unico inchiostro utilizzato, di colore nero, rende difficoltosa la distinzione tra le varianti immediate e tardive. Ma la familiarità con le carte manoscritte della scrittrice palesa senza indugio una consuetudine scrittoria nella quale la revisione del testo non necessariamente è successiva alla stesura, anzi – come le correzioni, le cassature in rigo e l’esame dei manoscritti di cui sopra, confermano – la accompagna, quasi un diario di bordo: «Scrivo sempre a mano e procedo molto lentamente, e solo quando il periodo mi è venuto ben chiuso e calettato e le parole sono quelle che devono essere e non altre suggerite dalla fretta, solo allora passo ad altro periodo. E lo stesso faccio con i capitoli».[8] Le cassature sono spesso doppie o, in qualche caso, triple, riportate con un personale andamento arricciolato, disteso in ampie volute o chiuso in strette curvature, secondo l’ampiezza del luogo da eliminare.
[2] La carta, nella prima parte, è di facile lettura, le riscritture e le microcorrezioni – per lo più dubbiosa alternanza di identiche parole e segmenti – rispondono a variazioni sullo stesso tema. Si veda come il secondo periodo, cassato e riscritto integralmente a seguire, conservi l’esitazione tra i complementi ‘ per dormire’ e ‘di sonnifero’, preferendo per questa stesura intermedia, scelta espositiva in linea con quella tematico-contenutistica (per cui vedi infra §5), il primo. Curioso è che la lezione finale riprodurrà, per l’intero brano, quasi dimentica delle indicazioni e del meticoloso lavoro per il rifacimento di c. 399 bis, la composizione di c. 399.
La presenza di varianti alternative è probabilmente ravvisabile nelle lezioni per le quali si mantiene la doppia formulazione, senza correggere o cassare, la prima in rigo o in interlinea, la seconda visibilmente successiva, chiusa in parentesi quadre. Esempi ne sono ‘certe’ sps. a ‘una o due’ al r.4 e ‘filtro di streghe’ sps. a ‘formula stregata’ al r.8. L’impressione è – confermata, almeno per quanto riguarda la scelta di ‘certe’, dall’esame del dattiloscritto contenente la lezione finale; non per ‘filtro di streghe’, compreso in una sezione poi inutilizzata – una particolare concezione dello statuto delle varianti alternative che tende a enfatizzare, piuttosto che indebolire queste ultime, dando alle parentesi quadre l’autorità della loro promozione a testo. Impossibile però, lavorando su una microsezione, sistematizzare tutti i luoghi interessati dal fenomeno e stabilire una regola generale valida per tutta l’opera.
[3] L’aggiunta ‘posticcia’ della ‘l’’ a ‘nel’ di fronte a parola che inizia per vocale a seguito della correzione di ‘prenderle’ in ‘inghiottirle’ è un escamotage, chiaramente visibile nell’autografo, che ricorre in altri luoghi: in [4], dove ‘su’ diventa ‘sui’ a seguito della variazione di ‘tale argomento’ in ‘loro effetti’ e in [5] dove ‘su’ ‘di lui’ diventa ‘sul’ ‘suo uso’.
[4] [5] Di più sofferta composizione, nei paragrafi successivi la porzione testuale si complica. È la parte nella quale l’allusione ai possibili effetti catastrofici delle pastiglie – spia ne è l’esclamativa forte che chiude [4] – unita alla ricerca semi-indiretta di rassicurazioni da parte del padre Wilhelm, anticipa il tentato suicidio, protagonista avvertibile ma sottinteso del capitolo. Lo status di snodo del paragrafo nell’architettura generale dell’episodio basterebbe da solo a giustificarne l’estrema cura compositiva; nella carta precedente, infatti, la narrazione è più fluida e sintetica – in margine appare, quadrettata, l’indicazione: “Rifare, usando Pag. 399 bis acclusa” -, e dà immediatamente spazio al livello successivo, l’assunzione materiale del sonnifero. Ed è proprio quella che sarà poi utilizzata per la stesura finale, facendo sì che l’intenso lavoro di c.399 bis venga, sostanzialmente, scartato. Nel dattiloscritto, che ho visionato personalmente, il passo ricorre alla c. 209 come da numerazione autografa dell’A. Ne riporto la trascrizione: « Mio padre, in quei giorni, era in viaggio; e io salii nella sua camera, sapendo che, là, avrei trovato ciò che mi occorreva. Da qualche tempo, lui soffriva xxxxxxxxxx d’insonnia, e xxxxxx xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxxxxxxxxx spesso faceva uso di certe pastiglie di sonnifero, delle quali, partendo, aveva lasciato sul cassettone suo cassettone un tubetto quasi intatto. M’erano noti, da discorsi uditi casualmente, i poteri di quelle pastiglie; sapevo che nella dose usata da mio padre (una, o due al massimo), esse erano un rimedio blando; ma che, aumentando la dose, si trasformavano in un xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx veleno. In numero, per esempio, di una ventina, potevano addirittura provocare la morte».
Ciò non stupisce se pensiamo che la preoccupazione più ricorrente negli appunti è quella di sfrondare il testo (“Importante! Togliere questi sentimenti e pensieri espressi, lasciare che i fatti parlino da sé” in V.E. 1620 A/XI, c.385v. oppure “N.B. la successione dei paragrafi in questa e nelle seguenti pagine va ordinata in modo diverso e da qui in poi tutto va riveduto, sfrondato e rifatto. (Questa è una prima stesura affrettata)” ivi c.389v.).
[5] Al rigo 15, tuttavia, il passo presenta un’intensa rielaborazione interna, di difficile lettura; occorrerà schematizzare pertanto in varie fasi la soluzione ipotizzata:
- Al rigo 14, la Morante scrive: “io avevo sbarrato gli occhi sul suo uso, e lui, leggendo il mio pensiero”.
- Cassa “il mio pensiero” riscrivendo in rigo, variante immediata, “i miei occhi” e continua “m’aveva subito – cassa “subito” – rassicurato subito con una risata: no, m […]” ma si accorge de “gli occhi” al rigo superiore, allora cancella tutto il rigo da “leggendo” in poi e riscrive, nell’interlinea superiore “al mio sguardo” sps. al precedente “i miei occhi” e, più oltre, “era” sps. a “subito”, forse con una fase intermedia di “al mio sguardo, m’aveva rassicurato subito con una risata: no, m […]”
- Cassa nuovamente, riscrivendo in pulito, al rigo 16: “al mio sguardo parlante, era…”.
- Come lavorava Elsa Morante
Se è vero che nulla più dei propri scritti racconta la biografia di uno scrittore – e giova allo scopo richiamare l’autoaffermazione della Morante: «Sono più autobiografici i romanzi di qualsiasi altra cosa si possa raccontare di sé […]. Non importa come i fatti si siano svolti in realtà, importa come sono stati raccontati»[9] – si pensi a quali stimolanti suggestioni si possono ricavare dall’ingresso materiale nella sua officina, nell’ottica di una analisi non soltanto impalpabile ma corporea, materiale, della scrittura. La lente d’ingrandimento posta sul campione analizzato non restituisce che uno dei singoli negativi, ma consente di leggere in filigrana tutta la pellicola: dietro ciò che Arturo, narratore autodiegetico, racconta nel microcosmo della c.399 bis ci sono l’universo, la psicologia, il modus operandi dell’autore. Un curioso ma sistematico impianto metodologico mormora sotto le decine e decine di quaderni, album, carte sparse, fitti di una scrittura leggera e agile, rinvii, correzioni, appunti. Tutti gli avvenimenti testuali vengono segnalati, precisi e assidui, a margine o sul verso, con la mano abile di un artigiano.[10] È lei a fornire la mappa per districarsi all’interno del suo labirinto privato.[11]
Album e quaderni, intanto, sono scritti longitudinalmente: numerose le cancellature, poche le correzioni. Più che corrette le carte vengono tagliate – tanto che alcuni quaderni risultano più che dimezzati – e, sulla scorta delle precise indicazioni annotate sul verso o in margine, riscritte instancabilmente di sana pianta, reintegrando le perdite con fogli sciolti, ai quali viene attribuita la numerazione bis, senza scompaginare l’assetto generale del romanzo. E l’utilizzo dei grandi formati – consentendo di avere a disposizione più spazio per interventi paratestuali – e degli album a fogli mobili – permettendo di togliere o inserire le pagine in un primitivo copia-incolla – ben si presta a questa prassi.
Morfologicamente parlando, invece, l’orditura dietro la carta in esame, senza prescindere dalla prima stesura ‘da rifare’ e dalla destinazione finale, si può riassumere nel proposito di rendere il sottofondo tonale il più problematico e riflessivo possibile, quel tono spesso definito dalla critica saggistico, a-narrativo. E due sono gli strumenti, visibili a occhio nudo, per ottenerlo: leggerezza e allusione. Arturo è un adolescente innamorato delle cose del mondo, il cui stupore ingenuo si riflette linguisticamente parte nella levità – addirittura rara – del detto, parte nell’ambiguità del non detto, ottenuti attraverso l’attento lavoro di lima che sappiamo. Questo si prefigge il compito di asciugare, contrarre ma allo stesso tempo curare ogni dettaglio, non tralasciare nulla. È un complesso ordigno che, partendo da un nucleo minimo, amplia semanticamente, riordina e poi alleggerisce di nuovo, smaltendo i materiali di scarto. E ciò è ravvisabile nella progressiva semplificazione: non stupisce la scelta, già richiamata, tra i complementi per dormire e di sonnifero, o la soluzione di sostituire all’aggettivo straordinario il meno pretenzioso grande, o ancora la preferenza, nell’ottica di un bambino, del verbo inghiottire piuttosto che prendere anche se, sembra, esempio emblematico è definitivamente la correzione di funestare il mondo in far piangere il mondo. Sostituzioni macroscopiche che si accompagnano ad altri accorgimenti: l’organizzazione ipotattica del discorso, lo spezzettamento della scrittura tramite la virgolazione, il ricorso alle forme dell’oralità, la prolessi e l’utilizzo personalissimo dei segni diacritici, quasi in chiave antifrastica. Il risultato è che si può leggere di temi di scottante moralità senza quasi rendersene conto, che la catastrofe può chiudere il capitolo Tragedie senza che nessun innalzamento liricizzante incrini il racconto ciarliero di un fanciullo che, pur sfiorando talvolta la freddezza della non partecipazione, continua a lanciarsi in scatti euforici, sbalorditi, esclamativi.
Scrive Garboli che la Morante «intinge la penna in questa materia di fuoco e non si scotta mai»[12], e pare definizione felicissima per descrivere la resa finale. Dopotutto bisognava restituire la giusta amalgama tra la mitologia di «un’odissea alla rovescia»[13] e la spigolosità delle guglie di una cattedrale[14] e nonostante la molla dell’avvio sia difficilmente individuabile – «di questa mia storia d’Arturo […] le ragioni (le mie ragioni di scriverla) mi sono sconosciute quasi tutte», salvo «l’antico inguaribile desiderio di essere un ragazzo»[15] – la fisionomia poi, si afferma con forza.
Tuttavia non lo fa senza oscillazioni, quelle che, dopo questa breve analisi, appaiono più visibili.
V. Talone
Note
[1] Per una panoramica più accurata sull’iter redazionale e l’indefettibile controllo cui viene sottoposto il testo cfr. A. Andreini, L’isola di Arturo, in Storia della letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Il Novecento, cit., IV, pp. 688-690.
[2] Per questo e ulteriori apprezzamenti espressi dal filosofo ungherese, cfr. C. Cecchi, C. Garboli, Fortuna critica, in E. Morante, Opere, («I Meridiani »), II, pp. 1675-77 (dove si legge, parzialmente riprodotta, anche una lettera di Lukács alla Morante del febbraio 1968) e più in generale ivi pp. 1651-81 per un’idea complessiva della critica morantiana che è anche un capitolo di bibliografia ragionata, purtroppo soltanto fino al 1990, anno di edizione. A colmare la lacuna, in special modo per quanto riguarda la mole degli interventi critico-polemici scaturiti in occasione della pubblicazione de La storia si veda la rassegna bibliografica di Irene Babboni, a corredo della ristampa Einaudi del 1995.
[3] Ne parla diffusamente Cesare Garboli, in un fascicolo di «Palatina» nel 1963, più tardi del 1968 a proposito dell’Isola di Arturo, nella prefazione al romando edito nella collana dei Premi Strega, Club degli Editori, Milano, 1969; ristampato in La stanza separata, Mondadori, Milano, stessa data.
[4] E. Morante, Opere, cit., p. 984.
[5] Cfr. l’autopresentazione di E. Morante all’edizione degli «Oscar» Mondadori del 1969 di cui sopra, p. 9.
[6] Un accurato repertorio degli scritti morantiani, sia comparsi su riviste che editi in volume è curato da T. Baldassaro nella sezione Bibliografia del Catalogo della mostra “Le stanze di Elsa. Dentro la scrittura di Elsa Morante”, a cura di G. Zagra e S. Buttò, Roma, 2006. Il volume offre un contributo prezioso sui materiali, le carte, i libri, nonché un’aggiornata bibliografia critica.
[7] Inoltre, soltanto gli ultimi quattro album riportano una datazione autografa nel piatto anteriore di copertina, indicazione che evidenzia una fase di accelerazione della scrittura. Per una prima descrizione del manoscritto cfr. G. Zagra, Il fondo Morante della Biblioteca Nazionale di Roma, in Elsa Morante, Catalogo della mostra curata da P. Cavalli e promossa dal Centro sistema Bibliotecario del Comune di Roma, Roma 1993-94, pp.18-19.
[8] Cfr. P. Monelli, Elsa morante, in «Successo», a.4, n.2, (feb.1962) , p.119.
[9] Si veda l’intervista della Morante in E. Siciliano, La guerra di Elsa, in «Il Mondo», 17 agosto 1957, p.21.
[10] Per studio accurato sui manoscritti, in particolare sulle riscritture del primo capitolo rinvio a M. Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta, Pisa, Nistri-Lischi, 1999, p. 87-93.
[11] Sulla fase ‘segreta’ del laboratorio morantiano, ricorda lo studioso e amico C. Garboli “Per tutta la sua prima fase di attività, durante la stesura di Menzogna e sortilegio e poi dell’Isola di Arturo, per più di dieci anni, il laboratorio della Morante è stato un gioco segreto. La Morante scriveva chiusa e quasi segregata nella sua stanza; avendo per compagni un paio di gatti, la penna, la carta, l’inchiostro; e per compagni metaforici un alambicco e un globo di vetro. Lavorava arruffata e indemoniata come una strega, ma anche attenta, scrupolosa, assistita da quella grande capacità di astrarsi dal mondo e di stare assorte nel loro lavoro che avevano un tempo le sarte”. C. Garboli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Milano, Adelphi, 1995.
[12] C. Garboli, Il gioco segreto, cit., p. 69.
[13] Ibid.
[14] Sul paragone che l’A. instaura nel Diario 1938, cit., p. 20 tra ‘costruzione del racconto’ e ‘cattedrale’: «[…] discorrendo dell’arte nel romanzo e nell’intreccio con V. ricordo di avere di sfuggita paragonato la costruzione del racconto a un’archittettura, a una cattedrale, le scene isolate alle vetrate».
Non vanno nemmeno dimenticate le riflessioni teoriche dedicate dalla Morante al romanzo, cfr. Sul romanzo (1959), in ID., Pro o contro la bomba atomica cit. pp. 1495-520.
[15] E. Morante, Una lettera inedita del febbraio 1957 a Giacomo Debenedetti, in «Il Corriere della Sera», 26 novembre 1985, p. 3. La lettera è del 18 febbraio 1957 e figura con altre due (rispettivamente del 24 gennaio 1957 e del 19 giugno 1957 in ID., Tre lettere a Giacomo Debenedetti, in «L’Indice», VI (1989), 8, pp. 8-9.
6. Bibliografia e sitografia
Per la gentile concessione delle riproduzioni digitali si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.
Opere di Elsa Morante
- Morante, L’isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1957.
- Morante, Diario 1938, a cura di Alba Andreini, Torino, Einaudi,1989.
- Morante, Opere («I Meridiani »), I-II, a cura di Carlo Cecchi – Cesare Garboli, 1990.
- Morante, L’isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1995.
Il fondo
- M. Breccia Fratadocchi, Le carte di Elsa Morante: criteri di schedatura, in Manoscritti di Elsa Morante e altri studi. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, pp. 13-18, 1995.
- Zagra, Il fondo Morante della Biblioteca Nazionale di Roma, in Elsa Morante. Mostra, teatro, incontri. Roma 2 dicembre 1993 – 17 gennaio 1994. Roma, Comune di Roma, Centro Sistema Bibliotecario, pp. 14-24, 1993.
- Zagra, I manoscritti di Elsa Morante alla Biblioteca Nazionale di Roma, in Manoscritti di Elsa Morante e altri studi. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, pp. 1-12, 1995.
- Le stanze di Elsa, Dentro la scrittura di Elsa Morante, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 27 aprile-3 giugno 2006, a cura di G. Zagra, S. Buttò, Roma, Colombo, 2006.
Il manoscritto
Biblioteca nazionale centrale <Roma>, Catalogo dei manoscritti Vittorio Emanuele, vol. IV, pp. 222-237.
http://manus.iccu.sbn.it//opac_SchedaScheda.php?ID=69619
http://193.206.215.10/morante/index.html
http://193.206.215.10/morante/arturo.html
Studi critici
A. Andreini, L’isola di Arturo, in Letteratura italiana: Le Opere, IV/2. Il Novecento. La ricerca letteraria. Torino, Einaudi, pp. 685-712, 1996.
M. Bardini, Morante Elsa: italiana, di professione poeta, Pisa, Nistri-Lischi, 1999.
C. Garboli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Milano, Adelphi, 1995.
A. Pupino, Struttura e stile nella narrativa di Elsa Morante, Ravenna, A. Longo, 1968.
G. Rosa, Elsa morante, Bologna, Il Mulino, 2013.
Dizionari
- Tommaseo, B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, Unione tipografico-editrice, 1879.