L’attenzione alle varianti d’autore non nasce improvvisa, ma ha una lunga genesi nella storia della critica letteraria, a partire almeno dal Bembo editore del Petrarca e teorico della lingua, a sua volta debitore per certe riflessioni di una tradizione anteriore. L’importanza dell’esempio bembesco fa scuola, e avvia un’attenzione più marcata alle varianti redazionali e alla possibilità per questa strada di una lettura più attenta dei testi.
Un episodio diverso, certo più audace e sostanzialmente sterile fino al Novecento, è invece quello rappresentato dall’edizione nel 1642 di Federico Ubaldini delle Rime di M. Francesco Petrarca come estratte da un suo originale in cui il filologo tenta una rappresentazione grafica delle correzioni petrarchesche. Rispetto alla critica “variantistica” precedente, la sorprendente novità e raffinatezza di questa edizione è data dalla riproduzione integrale delle lezioni del Codice degli abbozzi ricorrendo a opportune soluzioni tipografiche per segnalare le cassature e i rifacimenti redazionali.
Dopo i primi studi sulle varianti dei Promessi sposi, cui dedicano la loro attenzione prima, relativamente al passaggio dalla Ventisettana alla Quarantana e allo studio della prima redazione, il Fermo e Lucia vari studiosi (Sforza, Lesca, fino all’edizione curata nel 1954 da Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti), lo sforzo più decisivo per una rappresentazione integrale delle varianti d’autore, e la creazione di un apparato esaustivo delle varianti va a uno studioso dilettante e innamorato dell’oggetto della sua ricerca, il recanatese Francesco Moroncini, che dopo aver prodotto un’edizione commentata dei Canti leopardiani, pubblica nel 1927 l’edizione critica degli stessi, elaborando un sistema tipografico adatto non soltanto alla rappresentazione delle varianti testuali dei manoscritti e delle stampe, fino alla definitiva edizione Starita del 1835 (utilizzata come testo base), ma anche di quella complessa serie di annotazioni che circondano gli autografi leopardiani, la cosiddetta varia lectio. Opera, questa, che stabilisce il vero punto di partenza non soltanto della ricca riflessione che da Contini e De Robertis in avanti si sviluppa sugli autografi leopardiani, ma anche di un’elaborazione sempre più raffinata di apparati di filologia d’autore che proprio nell’edizione dei Canti offrono la più ricca esemplificazione.
(Testo tratto da P.Italia-G.Raboni, Che cos’è la filologia d’autore, Roma, Carocci, 2010 [V ed.]).